Menu Chiudi

Io non ho paura – Niccolò Ammaniti

Niccolò Ammaniti - Io non ho paura
Davide Corvaglia

Questo libro parla dell’amicizia fra due ragazzi della stessa età. L’amicizia si svolge ad Acqua Traverse, paesino dell’Italia Meridionale, nell’estate più calda del secolo. Sei bambini, sulle loro biciclette, si avventurano nella campagna. In mezzo a quel mare di spighe, però, c’è un segreto pauroso, un segreto che cambierà per sempre la vita di Michele Amitrano, il protagonista del racconto. Michele ha nove anni e un giorno, mentre gioca con i suoi amici scopre che presso una casa abbandonata è tenuto prigioniero in una buca un bambino della sua età, di nome Filippo. Michele comincia ad andare da Filippo tutti giorni, gli porta da bere e da mangiare. I due fanno amicizia. Ma, durante una visita a Filippo, tradito dall’amico Salvatore, al quale aveva confidato il segreto, Michele viene scoperto e gli viene impedito di rivedere il ragazzo. Michele capisce che Filippo è stato rapito e che tra i suoi rapitori c’è anche il padre ma continua a non capire il perché del suo rapimento. Filippo viene trasferito in un altro nascondiglio ma Michele continua a non arredendersi, fa di tutto per restituirgli la libertà, perché in fondo lui non ha paura, perché i mostri non esistono, glielo aveva detto lo stesso papà un tempo: “si deve avere paura solo degli uomini e non dei mostri, perché questi non esistono, sono solo frutto della tua mente”.

Questo libro è uno dei più belli che ho letto, mi è piaciuto molto perché mi ha suscitato emozioni e mi ha fatto capire il vero senso dell’amicizia.

Lo consiglio a tutti, insieme al film che magari potrebbe aiutare a capire meglio la storia.

«Attento, Michele, non devi uscire di notte», mi
diceva sempre mamma. «Con il buio esce l’uomo
nero e prende i bambini e li vende ».
Papà era l’uomo nero.

Filippo si era scordato di me. Lo sentivo.
Cercavo di chiamarlo con il pensiero.

 

Estratto:

 Mi sono infilato in camera, ho chiuso la porta. Erano stati papà e gli altri a prendere il bambino a quella signora della televisione. «Attento, Michele, non devi uscire di notte», mi diceva sempre mamma.
«Con il buio esce l’uomo nero e prende i bambini e li vende agli zingari».
Papà era l’uomo nero.
Di giorno era buono, ma di notte era cattivo.
Tutti gli altri erano zingari. Zingari travestiti da persone. E quel vecchio era il re degli zingari e papà il suo servo. Mamma no, però.
Mi immaginavo che gli zingari erano una specie di nanetti velocissimi, con le orecchie di volpe e le zampe di gallina. E invece erano persone normali.
Perché non glielo ridavano? Che se ne facevano di un bambino pazzo? La mamma di Filippo stava male, si vedeva. Se lo chiedeva in televisione voleva dire che le importava molto di suo figlio.
E papà gli voleva tagliare pure le orecchie.
“Che fai?” ho sobbalzato, mi sono voltato e per poco non l’ho fatta sul letto.
Maria si era svegliata.
Mi sono rimesso l’uccello nelle mutande.
“Niente.
“Facevi pipì, ti ho visto.
“Mi scappava.
“Che c’è di là?
Se dicevo a Maria che papà era l’uomo nero poteva pure impazzire. Ho sollevato le spalle.
“Niente.
[…]
“Michele, mi racconti una favola così mi addormento?
Papà ci raccontava le storie di Agnolotto in Africa. Agnolotto era un cagnolino di città che si nascondeva in una valigia e finiva per sbaglio in Africa, tra i leoni e gli elefanti. Ci piaceva molto questa storia. Agnolotto era capace di tenere testa agli sciacalli. E aveva una marmotta per amica. Di solito quando papà tornava ci raccontava una nuova puntata. Era la prima volta che Maria mi chiedeva di raccontarle una favola, ero molto onorato. Il guaio era che io non le conoscevo. “Ecco… Io non le so,” ho dovuto ammettere.
“Non è vero. Le conosci.
“E quale conosco?
“Ti ricordi la favola che ci ha raccontato quella volta la mamma di Barbara?
Quella di Pierino Pierone?
“Ah, già!
“Me la racconti?
“Va bene, ma non me la ricordo tanto.
“Ti va di raccontarmela nella tenda?
“Sì”. Così almeno non sentivamo gli strilli in cucina. Mi sono messo nel letto di mia sorella e ci siamo tirati il lenzuolo sopra la testa.
“Comincia,” mi ha sussurrato in un orecchio.
“Allora, c’era Pierino Pierone che si arrampicava sempre sugli alberi per mangiarsi la frutta. Un giorno stava là sopra quando è arrivata la strega Bistrega.
E ha detto: «Pierino Pierone, dammi una pera che ho una fame tremenda». E Pierino Pierone le ha lanciato una pera.
Mi ha interrotto. “Non hai detto com’è fatta la strega Bistrega.
“Giusto. E’ bruttissima. Senza i capelli sopra.
Ha la coda di cavallo e il naso lungo. E’ alta e si mangia i bambini. E suo marito è l’uomo nero…
Mentre raccontavo, mi vedevo papà che tagliava le orecchie a Filippo e se le metteva in tasca. E le attaccava allo specchietto del camion come con la coda di pelliccia.
“Non è vero. Non è sposata. Racconta bene.
Io la storia la so.
“Pierino Pierone le ha lanciato una pera che è finita dentro la merda di vacca.
Maria ha cominciato a ridere. Le cose con la cacca le piacevano molto.
“La strega Bistrega ha detto ancora: «Pierino Pierone, dammi una pera che ho una fame tremenda». «Prendi questa!» E le ha lanciato la pera nella piscia di vacca. E l’ha sporcata tutta.
Altre risate.
“La strega gliel’ha chiesta di nuovo. E lui le ha lanciato un’altra pera nel vomito di vacca.
Mi ha dato una gomitata. “Questa non c’è.
Non vale. Non fare lo scemo.
Con mia sorella non si poteva cambiare neanche un po’ la storia. “Allora…
Ma che facevano di là? Dovevano aver rotto un piatto. Ho alzato il tono.
“Allora Pierino Pierone è sceso dall’albero e le ha dato la pera. La strega Bistrega lo ha preso e lo ha chiuso dentro un sacco e se lo è messo in spalla.
Siccome Pierino Pierone mangiava i peperoni che sono pesanti, la strega non ce la faceva a portarlo e si doveva fermare ogni cinque minuti e a un certo punto doveva pure fare la pipì, ha lasciato il sacco e si è nascosta dietro un albero. Pierino Pierone con i denti ha tagliato la corda ed è uscito fuori e ci ha ficcato dentro un orsetto lavatore…
“Un orsetto lavatore?
Lo avevo detto apposta, per vedere se Maria li conosceva.
“Sì, un orsetto lavatore.
“Chi sono?
“Sono degli orsetti che se tu lasci i panni vicino al fiume loro arrivano e te li lavano.
“E dove stanno?
“Al Nord.
“E allora?” Maria sapeva che Pierino Pierone nel sacco ci aveva messo una pietra, però non ha detto niente.
“La strega Bistrega ha ripreso il sacco e se l’è messo sulle spalle e quando è arrivata a casa ha detto a sua figlia: «Margherita Margheritone, vieni giù e apri il portone e prepara il pentolone per bollire Pierino Pierone». Margherita Margheritine ha messo l’acqua sul fuoco e la strega Bistrega ci ha vuotato il sacco dentro e l’orsetto lavatore è saltato fuori e ha cominciato a morderle tutte e due, è sceso nel cortile e ha cominciato a mangiarsi le galline, ha buttato tutta la spazzatura in aria. La strega si è arrabbiata moltissimo ed è uscita un’altra volta a cercare Pierino Pierone. Lo ha trovato e lo ha infilato nel sacco e non si è fermata in nessun posto. Quando è arrivata a casa ha detto a Margherita Margheritone: «Prendilo e chiudilo in cantina che domani ce lo mangiamo…»
Mi sono fermato.
Maria dormiva e quella era una brutta storia.
[…]
E tutto si è fermato.
Una fata aveva addormentato Acqua Traverse.
I giorni seguivano uno dopo l’altro, bollenti, uguali e senza fine.
I grandi non uscivano più nemmeno la sera. Prima, dopo cena, mettevano fuori i tavoli e giocavano a carte. Ora se ne rimanevano dentro. Felice non si vedeva più. Papà se ne stava tutto il giorno a letto e parlava solo con il vecchio.
Mamma cucinava. Salvatore si era chiuso in casa.
Andavo sulla mia nuova bicicletta. Tutti volevano provarla. Il Teschio si faceva Acqua Traverse su una ruota sola. Io neanche due metri.
Me ne stavo spesso per conto mio. Pedalavo oltre il torrente secco, prendevo stradine polverose tra i campi che mi portavano distante, dove non c’era più niente se non pali abbattuti e filo spinato mangiato dalla ruggine. In lontananza le mietitrebbia rosse tremolavano nelle onde di calore che salivano dai campi.
Era come se Dio aveva tagliato i capelli a zero al mondo. Qualche volta i camion con i sacchi di grano passavano per Acqua Traverse lasciandosi dietro scie di fumo nero.
Quando stavo in strada avevo l’impressione che tutti osservavano quello che facevo. Mi pareva di scorgere dietro le finestre la madre di Barbara che mi spiava, il Teschio che mi indicava e bisbigliava con Remo, Barbara che mi sorrideva strana. Ma anche quando stavo solo, seduto su un ramo del carrubo o in bicicletta, quell’impressione non mi lasciava. Anche quando mi aprivo un varco nei resti di quel mare di spighe destinato a essere stipato nelle balle e intorno non avevo che cielo, mi pareva che mille occhi mi guardavano.
Non ci vado, state tranquilli. L’ho giurato.
Ma la collina era là, e mi aspettava.
Ho cominciato a fare la strada che portava alla fattoria di Melichetti. E ogni giorno, senza rendermene conto, ne facevo un pezzettino in più.
Filippo si era scordato di me. Lo sentivo.
Cercavo di chiamarlo con il pensiero.
Filippo? Filippo mi senti?
Non posso venire. Non posso.
Non mi pensava.
Forse era morto. Forse non c’era più.
Un pomeriggio, dopo mangiato, mi sono messo sul letto a leggere. La luce premeva contro gli scuri e filtrava nella stanza bollente. Avevo i grilli nelle orecchie.
Mi sono addormentato con il giornaletto di Tiramolla in mano.
Ho sognato che era notte, ma io ci vedevo lo stesso. Le colline si muovevano nel buio. Si spostavano lente come tartarughe sotto un tappeto.
Poi tutte insieme spalancavano gli occhi, buchi rossi che si aprivano nel grano, e si sollevavano, sicure di non essere viste, e diventavano dei giganti fatti di terra e coperti di spighe che avanzavano ondeggiando sui campi e mi venivano addosso e mi seppellivano.
Mi sono risvegliato in un bagno di sudore. Sono andato al frigo a prendere l’acqua. Vedevo i giganti.
Sono uscito e ho preso la Scassona.
Ero davanti al sentiero che portava alla casa abbandonata.
La collina era li. Fosca, velata dal caldo. Mi sembrava di scorgere due occhi neri nel grano, proprio sotto la cima, ma erano solo macchie di luce, delle pieghe del terreno. Il sole aveva cominciato a scendere e smorzarsi. L’ombra della collina copriva lentamente la pianura.
Potevo salire.
Ma la voce di papà mi tratteneva. «Ascoltami bene. Se torni lì lo uccidono.
Lo hanno giurato».

Niccolò Ammaniti
Io non ho paura
Einaudi Editore, 2007