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Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa – Antonio Tabucchi

Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa

Un racconto biografico (anche se si tratta di una biografia immaginaria), nel quale Antonio Tabucchi descrive la morte di uno dei più grandi scrittori del Novecento. Un libro delicato e struggente.
Il Racconto è diviso in tre parti più un’appendice. Ogni parte corrisponde ad un giorno ben preciso: il 28 novembre 1935, il 29 novembre 1935 ed il 30 novembre 1935, data in cui mancò lo scrittore.   
Fernando Pessoa si trova nel suo letto di morte all’ospedale di São Luís dos Franceses. Tre giorni di agonia durante i quali, come in delirio, il grande poeta portoghese riceve i suoi eteronimi (i suoi “alter ego” che Pessoa incontrò nella sua mente e descrisse per tutta la sua esistenza, muniti di vite proprie e di personalità ben distinte).
Nella prima parte Pessoa rivede, ad esempio, Àlvaro del Campos, poeta immaginario che causò la rottura della storia d’amore tra Pessoa e Ophélia (unico vero amore di Pessoa). In un secondo momento, invece, Pessoa incontra il poeta Riccardo Reis ed il celebre Bernardo Soares, autore del “Libro dell’inquietudine”. Infine, il 30 novembre 1935, Pessoa riceve in visita il suo ultimo eteronimo, António Mora:
“Caro António Mora, disse, Proserpina mi vuole nel suo regno, è ora di partire, è ora di lasciare questo teatro d’immagini che chiamiamo la nostra vita, sapesse le cose che ho visto con gli occhiali dell’anima […]”

…vivere la mia vita è stato vivere mille vite, sono stanco, la mia candela si è consumata, la prego, mi dia i miei occhiali.

Estratto:

Beh, disse Pessoa, in quel momento un’onda nera si era abbattuta sulla mia testa, vede, non sapevo più cosa fare, se considerarmi pazzo o se buttarmi nel Tago, avevo bisogno di una famiglia, di qualcuno che si curasse di me, che mi trattasse con affetto e dolcezza, e in quella famiglia ho trovato un focolare, e poi, quando restavo solo, perché a volte restavo solo in casa, c’era un cane, un bel cane nero che si chiamava Jó, un bastardo intelligentissimo al quale leggevo le mie poesie esoteriche, quel cane, ne sono certo, era la reincarnazione di una divinità dell’antico Egítto, lui raspava con la zampa sul pavimento e mi dettava la misura del verso, e con quella scansione animalesca e divina io scandivo il metro delle mie poesie, trasformandole in musica. Poi andavo a sedermi sul terrazzo e guardavo la baia, guardavo le barche dei pescatori che tornavano all’imbrunire, sentivo le voci dei marinai che si chiamavano allegramente fra di loro, respiravo l’odore del catrame e delle reti da pesca, e tutto era bello e antico, e così mi sono curato, ho dimenticato la morte e ho ricominciato a vivere.
Anch’io ho dimenticato la morte, disse António Mora, perché ho letto il paterno Lucrezio che insegna il ritorno della vita nell’Ordine della Natura, e ho capito che tutti gli atomi che ci compongono, queste particelle infinitesimali che sono il nostro corpo di ora, dopo torneranno nel ciclo eterno e saranno acqua, terra, fertili fiori, piante, la luce che dà la vista, la pioggia che ci bagna, il vento che ci scuote, la neve candida che ci avvolge col suo manto in inverno. Noi tutti ritorneremo qui sulla terra, o grande Pessoa, nelle innumerevoli forme che vuole la Natura, e forse saremo un cane, chiamato Jó, un filo d’erba o le caviglie di una giovane inglese che guarda stupita una piazza di Lisbona. Ma la prego, è presto per partire, resti ancora un po’ fra noi, in quanto Fernando Pessoa.
Pessoa appoggiò una guancia sul cuscino e fece un sorriso stanco. Caro António Mora, disse, Proserpina mi vuole nel suo regno, è ora di partire, è ora di lasciare questo teatro d’immagini che chiamiamo la nostra vita, sapesse le cose che ho visto con gli occhiali dell’anima, ho visto i contrafforti di Orione, lassù nello spazio infinito, ho camminato con questi piedi terrestri sulla Croce del Sud, ho attraversato notti infinite come una cometa lucente, gli spazi interstellari dell’immaginazione, la voluttà e la paura, e sono stato uomo, donna, vecchio, bambina, sono stato la folla dei grandi boulevards delle capitali dell’Occidente, sono stato il placido Buddha dell’Oriente del quale invidiamo la calma e la saggezza, sono stato me stesso e gli altri, tutti gli altri che potevo essere, ho conosciuto onori e disonori, entusiasmi e sfinimenti, ho attraversato fiumi e impervie montagne, ho guardato placide greggi e ho ricevuto sul capo il sole e la pioggia, sono stato femmina in calore, sono stato il gatto che gioca per strada, sono stato sole e luna, e tutto perché la vita non basta. Ma ora basta, mio caro António Mora, vivere la mia vita è stato vivere mille vite, sono stanco, la mia candela si è consumata, la prego, mi dia i miei occhiali.

Antonio Tabucchi, Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa