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Vento largo – Francesco Biamonti

Vento largo

In “Vento largo” lo scrittore affronta il tema del gelo e dell’abbandono. Varí ha le terre bruciate dal freddo: non vale più la pena di riprendere a coltivarle. Si lascia attrarre dalla proposta di Sabel di portare, attraverso gli impervi passi, gruppi di disperati verso l’agognata Francia. Biamonti racconta, attraverso una lingua lirica sempre alta, una Liguria tramontata, perduta. È la Liguria degli anni cinquanta e sessanta, una Liguria di roccia umida e muschiosa.
Nico Orengo – L’Indice, 1991.
Ho scritto questo romanzo ascoltando la musica di Debussy e pensando alla pittura di Cézanne, le matrici culturali del libro sono proprio in questa pittura ed in questa musica. Con “Vento largo” ho cercato di rappresentare la condizione umana, erratica, provvisoria, priva di certezze eppure attraversata da un rivolo di pietà, da un certo stupore e da grandi silenzi. La storia, infatti, non si conclude ed i personaggi non emergono troppo proprio perché riflettono la nostra vita mutilata, il nostro cuore lacerato, l’animo pieno di dubbi.

Francesco Biamonti

Camminava. Ma senza tanta voglia di arrivare. La mente adesso partiva per suo conto. Forse perché c’era vento e si vedeva il mare nel cielo al tramonto. Gli giungeva la voce di lei, roca senza melodie, il suo franco accento.
Anche se gli pareva di sapere dove andarla a cercare (avrebbe scommesso per gli altipiani di lavanda di là dalle montagne), oscuro gli sembrava il motivo della sua fuga, oscuro. Minacce? Paure? Nessuno ne era indenne nei traffici loschi di frontiera.
Arrancava; ma con la voglia di fermarsi, nell’ora in cui la mente cercava il ricordo. Il mare di là dagli ulivi, e le rocce di cresta segnavano il cielo di una luce che si ossificava.
Il buio non era mai fitto ad Aùrno.

Varì lasciò Luvaira che era tardi.
Prese una mulattiera che saliva in una gola buia e raggiunse un dosso di pietrischi. Lo agirò e riprese a salire per le fasce di Aùrno.
«Ne abbiamo fatto del cammino assieme, – pensava salendo, – ne abbiamo conosciuti nomadi e viandanti. Eravamo due passeurs onesti, lui di mestiere io a tempo perso. Non abbiamo mai lasciato nessuno di qua del confine».
Adesso andava su fasce d’argilla marnosa con ulivi grandi agitati da una brezza ch’era come un vento. Tra quegli ulivi aveva la sua casa e più in là, protette dagli ulivi e dalle rocce, le colture floreali.
«Ne abbiamo fatto di cammino insieme, – tornò a dirsi mentalmente. – Lui adesso viaggia per altre terre: del silenzio, della penombra».
Le colline erano scure, e scure anche le montagne contro il cielo stellato. Solo la Cimòn Aurive aveva i crinali verso il mare toccati da barlumi.
S’alzò presto. Ma trovò la terra indurita dal freddo e preferì il sole prima di mettersi a innaffiare. Con l’acqua quella terra dura avrebbe morso le radici.
Mentre aspettava, vide Sabèl venire sul sentiero. Non l’aveva mai vista venire ad Aùrno a quell’ora. Camminava veloce nei fremiti del mattino, e dietro di lei il sole entrava nelle cime degli ulivi e le argentava.
– Mi dispiace, – le disse, – sapessi quanto mi dispiace per «barba» Andrea.
– S’è accasciato per strada, in paese: non ha più detto una parola non mi ha neppure riconosciuta quando l’ho chiamato.
– L’hai chiamato?
Trovava crudele chiamare chi se ne andava.
Sabèl tocco le foglie di una waldorf: le restò sulle dita una sorta di polvere.
– Si coprono di polvere per non traspirare, – egli disse. -Se continua questo secco non riusciranno a portare il fiore.
Chinate dall’aria tutte le mimose si raccoglievano dolcemente nella gran luce.
Gli sembrava che la donna guardasse il confine, desolato crinale che il sole invetrava. Poi lei gli prese la mano. Era salita, disse, per parlargli, per chiedere un consiglio, e non ci riusciva… Ecco, per farla breve: «barba» Andrea teneva nascosti due clandestini e adesso lei non sapeva cosa farne. Di abbandonarli non se la sentiva. Erano un bulgaro e una rumena, una rumena molto bella che le ricordava una ragazza conosciuta anni prima, quando andava a fare la stagione della mimosa sulla Corniche d’Or.
– Li fai partire alla prima notte chiara. Adesso no, adesso è scuro, e se adoperano la lampada li vedono da lontano.
– E se andassero di giorno?
– Li prenderebbero di sicuro.
– Non conosci un passeur? non possiamo trovare qualcuno?
– Ce n’è, ma sulla costa, molto infidi. Io non li metterei nelle loro mani. Rischiano meno a tentare da soli: se li prendono tutt’al più si fanno qualche mese nel campo di Latina. Ora dove sono?
– Sopra il paese, in un fienile.
– Nella casetta della Boeira?
Era una casetta con un mandorlo sulla porta sempre carico di colombi. Quanta gente vi aveva nascosto Andrea in tanti anni! Lo ricordavo al lavoro, gli sembrava di rivederlo: si faceva pagare per strada, non avvertiva quando passavano il confine, e s’allontanava di colpo: «Ecco, siete in Francia, andate!» perché non fossero tentati di riprendergli i soldi.
– A che pensi? – lei disse imbarazzata.
– Mandali su da me alla prima notte di luna. Sarà meglio che li accompagni io.
Sabèl lo guardò con occhi lievi – iridi di un colore lontano, di mare, d’oltremare. Che cosa non avrebbe fatto per quegli occhi soffusi di tenerezza, per quella fronte un po’ reclina! Era un autunno nervoso, di vento, oltreché di lungo sereno, e i bagliori, che salivano dalla costa, la toccavano prima di percorrere gli ulivi, le rocce, e morire contro le montagne.
– Lo sai che «barba» Andrea, quando mio padre se n’è andato, mi ha fatto un po’ da padre?
Disse che lo sapeva. Poi aggiunse: – Vorrei essere stato io tuo padre, – pur vergognandosi di quell’assurdo sogno.
– Che cosa ricorderai di me se me ne andassi? Su, dimmelo! Non me lo puoi dire?
Era una donna al colmo dello splendore e faceva sempre strane domande inquiete.
– Cercherei di non ricordare niente, chiuderei il libro…

Francesco Biamonti, da Vento largo