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Donna di porto Pim – Antonio Tabucchi

Donna di porto PimDonna di Porto Pim è una tra le perle narrative di Antonio Tabucchi, conosciuto soprattutto per alcuni celebri romanzi come Notturno indiano e Sostiene Pereira, capolavori dello scrittore italiano. Non tutti sanno, però, che Tabucchi ha dato il meglio di se nella realizzazione di racconti che spesso sono stati sottovalutati, come appunto Donna di Porto Pim. Il libro si compone di frammenti: per lo più di storie e vite “intercettate” per caso, racconti di racconti, con un gusto estremo per il particolare, per la frase captata al volo; un libro spezzato al suo interno dalla molteplicità. Ed è per questo motivo che tende all’infinito: vuole ricomporre le parti mancanti del suo universo narrativo.
La storia è ambientata nelle isole Azzorre ed ha un finale drammatico, lacerante, di quelli che lasciano con dubbio ed amarezza, con la tristezza di chi “è già stato, è già vissuto”. Così il protagonista, Lukas Eduino, cantastorie e pescatore tradito dice:

«E se tu ti trattieni ancora un po’ e la voce non si incrina, stasera ti canterò la melodia che segnò il destino di questa mia vita.Non so perché lo faccio, la regalo a quella donna dal collo lungo e alla forza che ha un viso di affiorare in un altro, e questo forse mi ha toccato una corda »

 La guardai a lungo e anche lei mi guardò.
è strano come l’amore può entrare
dentro di noi.

Estratto:


Donna di Porto pim
Una storia

[…] Le murene si pescano la sera,
quando cresce la luna, e per chiamarle
si usava una canzone che non aveva
parole: era un canto, una melodia
prima bassa e languida e poi acuta,
non ho più sentito un canto con tanta
pena, sembrava che venisse dal fondo
del mare o da anime perdute nella
notte, era un canto antico come le
nostre isole, ora non lo conosce più
nessuno, si è perduto, e forse è
meglio così perché aveva con sé una
maledizione o un destino, come una
magia. Mio padre usciva con la barca,
era notte, muoveva i remi piano, a
perpendicolo, per non fare rumore, e
noi altri, i miei fratelli e mia
madre, ci sedevamo sulla falesia e
cominciavamo il canto. C’erano volte
che gli altri tacevano e volevano che
chiamassi io, perché dicevano che la
mia voce era melodiosa come
nessun’altra e che le murene non
resistevano. Non credo che la mia voce
fosse migliore di quella degli altri:
volevano che cantassi io solo perché
ero il più giovane e si diceva che le
murene amano le voci chiare. […]
…mio padre avrebbe
voluto che mi sposassi, perché una
casa senza una donna non è una vera
casa. Ma io avevo venticinque anni e
mi piaceva giocare all’amore, tutte le
domeniche scendevo al porto e cambiavo
innamorata, in Europa era tempo di
guerra e nelle Azzorre la gente andava
e veniva, ogni giorno una nave
attraccava qui o altrove, e a Porto
Pim si parlavano tutte le lingua.
La incontrai una domenica sul porto.
Vestiva di bianco, aveva le spalle
nude e portava un cappello di trina.
Sembrava scesa da un quadro e non da
una di quelle navi cariche di persone
che fuggivano nelle Americhe. La
guardai a lungo e anche lei mi guardò.
è strano come l’amore può entrare
dentro di noi. In me entrò col notare
due piccole rughe accennate che aveva
intorno agli occhi e pensai così: non
è più tanto giovane. Pensai così
perché forse a quel ragazzo che ero
una donna matura sembrava più vecchia
della sua età reale. Che aveva poco
più di trenta anni lo seppi solo molto
più tardi, quando sapere la sua età
non serviva più a niente. Le detti il
buongiorno e le chiesi se potevo
esserle utile. Mi indicò la valigia
che stava ai suoi piedi. Portala al
Bote, mi disse nella mia lingua. Il
Bote non è un luogo per signore,
dissi io. Io non sono una signora,
rispose, sono la nuova padrona.
La domenica seguente scesi di nuovo
in città. Il Bote a quei tempi era un
locale strano, non era esattamente una
locanda per pescatori e io vi ero
entrato solo una volta. Sapevo che
c’erano due separé sul retro dove
dicevano che si giocava di denaro, e
la stanza del bar aveva una volta
bassa, con una specchiera arabescata e
i tavolini di legno di fico. I clienti
erano tutti stranieri, pareva che
fossero tutti in vacanza, in realtà
passavano la giornata a spiarsi,
ciascuno fingendo di essere di un
paese che non era il suo, e negli
intervalli giocavano a carte. Faial,
in quegli anni, era un luogo
incredibile. Dietro al bancone c’era
un canadese basso, con le basette a
punta, si chiamava Denis e parlava il
portoghese come quelli di Cabo Verde,
lo conoscevo perché il sabato veniva
al porto a comprare il pesce, al Bote
si poteva cenare, la domenica sera. Fu
lui che poi mi insegnò l’inglese.
Vorrei parlare con la padrona,
dissi. La signora viene solo dopo le
otto, rispose con superiorità. Mi
sedetti a un tavolo e ordinai la cena.
Verso le nove lei entrò, c’erano altri
avventori, mi vide e mi fece un saluto
distratto, e poi si sedette a un
angolo dove c’era un vecchio signore
coi baffi bianchi. Solo allora sentii
quanto fosse bella, di una bellezza
che mi faceva bruciare le tempie, era
questo che mi aveva portato lì, ma
fino a quel momento non ero riuscito a
capirlo con esattezza. E in quel
momento ciò che capivo mi si ordinò
dentro con chiarezza e mi dette quasi
una vertigine. Passai la sera a
fissarla, coi pugni appoggiati alle
tempie, e quando uscì la seguii a
distanza. Lei camminava leggera, senza
voltarsi, come chi non si preoccupa di
essere seguito, attraversò la porta
della muraglia di Porto Pim e cominciò
a discendere la baia. Dall’altra parte
del golfo, dove termina il
promontorio, isolata fra le rocce, fra
un canneto e una palma, c’è una casa
di pietra. Forse l’hai già notata, ora
è una casa disabitata e le finestre
sono cadenti, ha qualcosa di sinistro,
un giorno o l’altro crollerà il tetto,
se non è già crollato. Lei abitava là,
ma allora era una casa bianca con
riquadri azzurri su porte e finestre.
Entrò e chiuse la porta e la luce si
spense. Io mi sedetti su uno scoglio e
aspettai. A metà della notte si accese
una finestra, lei si affacciò e io la
guardai. Le notti sono silenziose a
Porto Pim, basta sussurrare nel buio
per sentirsi a distanza. Lasciami
entrare, la supplicai. Lei chiuse la
persiana e spense la luce. La luna
stava sorgendo, con un velo rosso di
luna d’estate. Sentivo uno
struggimento, l’acqua sciabordava
attorno a me, tutto era così intenso e
così irraggiungibile, e mi ricordai di
quando ero bambino e la notte chiamavo
le murene dalla falesia: e allora mi
dette una fantasia, non seppi
trattenermi, e cominciai a cantare
quel canto. Lo cantai piano piano,
come un lamento o una supplica, con
una mano all’orecchio per guidare la
voce. Poco dopo la porta si aprì e io
entrai nel buio della casa e mi trovai
fra le sue braccia. Mi chiamo
Yeborath, disse soltanto.
Tu lo sai cos’è il tradimento? Il
tradimento, quello vero, è quando
senti vergogna e vorresti essere un
altro. Io avrei voluto essere un altro
quando andai a salutare mio padre e i
suoi occhi mi seguivano mentre
fasciavo l’arpione con la tela cerata
e lo appendevo a un chiodo di cucina e
mi mettevo a tracolla la viola che mi
aveva regalato per i miei vent’anni.
Ho deciso di cambiare mestiere, dissi
rapidamente, vado a cantare in un
locale di Porto Pim, verrò a trovarti
il sabato. E invece quel sabato non
andai, e nemmeno il sabato seguente, e
mentendo a me stesso mi dicevo che
sarei andato il sabato venturo. E così
venne l’autunno, e passò l’inverno, e
io cantavo. Facevo anche altri piccoli
lavori, perché a volte certi avventori
bevevano troppo e per sorreggerli o
cacciarli era necessario un braccio
robusto che Denis non possedeva. E poi
ascoltavo quello che dicevano gli
avventori che fingevano di stare in
vacanza, è facile ascoltare le
confidenze degli altri quando si è
cantante di taverna, e come vedi è
anche facile farne. Lei mi aspettava
nella casa di Porto Pim e ormai non
dovevo più bussare. Io le chiedevo:
chi sei, da dove vieni?, perché non
andiamo via da questi individui
assurdi che fanno finta di giocare a
carte, voglio stare con te per sempre.
Lei rideva e mi lasciava intendere la
ragione di quella sua vita, e mi
diceva: aspetta ancora un po’ e ce ne
andremo insieme, devi fidarti di me,
di più non posso dirti. Poi si metteva
nuda alla finestra e guardava la luna
e mi diceva: canta il tuo richiamo, ma
sottovoce. E mentre io cantavo mi
chiedeva che la amassi, e io la
prendevo in piedi, appoggiata al
davanzale, mentre lei guardava la
notte come se aspettasse qualcosa.
Successe il dieci di agosto. Per San
Lorenzo il cielo è pieno di stelle
cadenti, ne contai tredici tornando a
casa. Trovai la porta chiusa, e io
bussai. Poi bussai di nuovo, con più
forza, perché la luce era accesa. Lei
mi aprì e restò sulla porta, ma io la
scostai con un braccio. Parto domani,
disse, la persona che aspettavo è
tornata. Sorrideva come se mi
ringraziasse, e chissà perché pensai
che pensava al mio canto. In fondo
alla stanza una figura si mosse. Era
un uomo anziano e si stava vestendo.
Che cosa vuole?, le chiese in quella
lingua che io ora capivo. è ubriaco,
disse lei, una volta faceva il
baleniere ma ha lasciato l’arpione per
la viola, durante la tua assenza mi ha
fatto da servo. Mandalo via, disse lui
senza guardarmi.
C’era un riflesso chiaro sulla baia
di Porto Pim. Percorsi il golfo come
se fosse un sogno, quando ci si trova
subito all’altra estremità del
paesaggio. Non pensai a niente, perché
non volevo pensare. La casa di mio
padre era spenta, perché lui si
coricava presto. Ma non dormiva, come
spesso succede ai vecchi che giacciono
immobili nel buio come se fosse una
forma di sonno. Entrai senza accendere
il lume, ma lui mi sentì. Sei tornato,
mormorò. Io andai alla parete di fondo
e staccai il mio arpione. Mi muovevo
alla luce della luna. Non si va alle
balene a quest’ora di notte, disse lui
dal suo giaciglio. è una murena,
dissi io. Non so se capì cosa volevo
dire, ma non replicò e non si mosse.
Mi parve che mi facesse un segno di
saluto con la mano, ma forse fu la mia
immaginazione o un gioco d’ombra della
penombra. Non l’ho più rivisto, morì
molto prima che scontassi la mia pena.
Anche mio fratello non l’ho più
rivisto. L’anno scorso mi è arrivata
una sua fotografia, è un uomo grasso
coi capelli bianchi circondato da un
gruppo di sconosciuti che devono
essere i figli e le nuore, sono seduti
sulla veranda di una casa di legno e i
colori sono esagerati come nelle
cartoline. Mi diceva che se volevo
andare da lui, là c’è lavoro per tutti
e la vita è facile. Mi è parso quasi
buffo. Cosa vuol dire una vita facile,
quando la vita è già stata?
E se tu ti trattieni ancora un po’ e
la voce non si incrina, stasera ti
canterò la melodia che segnò il
destino di questa mia vita. Non l’ho
più cantata da trent’anni e può darsi
che la voce non regga. Non so perché
lo faccio, la regalo a quella donna
dal collo lungo e alla forza che ha un
viso di affiorare in un altro, e
questo forse mi ha toccato una corda.
E a te, italiano, che vieni qui tutte
le sere e si vede che sei avido di
storie vere per farne carta, ti regalo
questa storia che hai sentito. Puoi
anche mettere il nome di chi te l’ha
raccontata, ma non quello con cui mi
conoscono in questa bettola, che è un
nome per i turisti di passaggio.
Scrivi che questa è la vera storia di
Lucas Eduino, che uccise con l’arpione
la donna che aveva creduto sua, a
Porto Pim.
Ah, su una sola cosa lei non mi
aveva mentito, lo scopersi al
processo. Si chiamava davvero
Yeborath. Se questo può contare
qualcosa.

Antonio Tabucchi, Donna di Porto pim e altre storie – Sellerio