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Diario 1941 – 1943 – Etty Hillesum

Etty Hillesum
Il Diario è la storia di un’anima meravigliosa, una testimonianza di grande valore nonché una fondamentale e ancora attualissima lezione di vita. Mentre tutta l’Europa vive il dramma della persecuzione e delle deportazioni di massa, Etty Hillesum, intellettuale raffinata, ci restituisce in queste pagine la sua avventura di liberazione spirituale.

All’inizio di questo Diario, Etty è una giovane donna di Amsterdam, intensa, passionale, intricata in varie storie amorose. Legge Rilke, Dostoevskij, Jung. E’ ebrea, ma non osservante. I temi religiosi la attirano, e talvolta ne parla. Poi, a poco a poco, la realtà della persecuzione comincia a infiltrarsi fra le righe del diario. Etty registra le voci su amici scomparsi nei campi di concentramento, o uccisi o imprigionati. Un giorno, davanti a un gruppo sparuto di alberi, trova il cartello: «Vietato agli ebrei». Un altro giorno, certi negozi vengono proibiti agli ebrei. Un altro giorno, gli ebrei non possono più usare la bicicletta. Etty annota: «La nostra distruzione si avvicina furtivamente da ogni parte, presto il cerchio sarà chiuso intorno a noi e nessuna persona buona che vorrà darci aiuto lo potrà oltrepassare». Ma, quanto più il cerchio si stringe, tanto più Etty sembra acquistare una straordinaria forza dell’anima. Non pensa un solo momento, anche se ne avrebbe l’occasione, a salvarsi. Pensa a come potrà essere d’aiuto a quei molti altri che stanno per condividere con lei il «destino di massa» della morte amministrata dalle autorità tedesche. Confinata a Westerbork, campo di smistamento da cui un giorno sarà mandata ad Auschwitz, Etty esalta ancora in quel «pezzo di brughiera recintato da filo spinato» la sua capacità di essere un «cuore pensante».
La testimonianza di Etty rimane fra le più preziose che la persecuzione degli ebrei ci abbia lasciato.
Nota editoriale

Il mio cuore è una chiusa che ogni volta arresta un flusso ininterrotto di dolore.
 
Ogni volta è come una piccola ondata di calore, anche dopo i momenti più difficili: la vita è davvero bella. È un sentimento inspiegabile, che non può fondarsi sulla realtà in cui viviamo.

Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite.

Estratto:

Ma ora attenzione: «corpo e anima sono una cosa sola»: dev’essere stata questa la ragione per cui S. aveva voluto valutare le mie forze fisiche facendo la lotta con me. Evidentemente avevo ancora molte energie, è successo un fatto strano: ho buttato a terra quest’uomo grande e grosso. Tutta la tensione e la forza che avevo accumulato si sono scatenate – ed eccolo a terra, fisicamente e anche psichicamente, come mi ha raccontato più tardi. Nessuno ci era mai riuscito, non capiva come avessi fatto. Sanguinava dal labbro e ho avuto il permesso di lavarglielo con acqua di colonia, era un’operazione stranamente confidenziale. Ma lui era così ‘libero’, innocente, aperto, naturale nei suoi movimenti – anche quando eravamo rotolati insieme per terra, anche quando, vinta alla fine, mi ero trovata sotto di lui, tutta rigida fra le sue braccia -, anche allora S. era rimasto ‘oggettivo’ e puro, sebbene io avessi ceduto per un momento alla seduzione fisica che emanava da lui. Però quella lotta andava ancora bene: era soprattutto una novità e insieme una liberazione. Dopo, invece, aveva eccitato troppo la mia fantasia[…].

se un uomo mi fa una certa impressione, sono capace di abbandonarmi per giorni e notti alle mie fantasie erotiche – non mi sono mai resa conto di quante energie io abbia consumato per questo – La realtà non può coincidere con la mia fantasia sfrenata. Così era stato con S., quella volta: avevo già le mie idee di come sarebbe stato il nostro incontro e mi ero recata da lui in uno stato d’ebbrezza, una tuta da ginnastica sotto il mio vestito di lana. Invece S. era stato molto oggettivo e distante, io mi ero subito irrigidita a mia volta e anche la ginnastica non aveva funzionato per niente. Ero lì nella mia tuta, tutt’e due ci sentivamo imbarazzati come Adamo ed Eva dopo aver mangiato la mela; S. aveva tirato le tende e chiuso a chiave la porta, la sua scioltezza era sparita, e per parte mia avrei voluto scappar via e mettermi a piangere, tant’era odiosa quella situazione. Era disgustoso quando ci siamo rotolati per terra, io che mi stringevo a lui con sensualità e insieme con repulsione per tutto quanto, e a un certo punto neanche i suoi movimenti erano più del tutto innocenti. Certo che sarebbe stato diverso se io non avessi avuto quelle fantasie. E’ stata una collisione improvvisa e fortissima tra il mio sfrenato fantasticare e la realtà deludente, ridotta a un uomo timido e sudato che alla fine si cacciava la camicia stropicciata nei calzoni […].

“Domenica, le undici.” […] studiando Lermontov, scrivevo che dietro la sua testa spuntava sempre quella di S., che avrei voluto rivolgermi a quel caro viso, parlargli e accarezzarlo, che così non riuscivo a lavorare. E’ passato molto tempo da allora, è già tutto un po’ diverso. Il suo volto c’è ancora, mentre lavoro, ma non mi distrae più, è diventato come un paesaggio amato e familiare che sta sullo sfondo, i suoi tratti sono sfumati, non vedo più un volto preciso – s’è dissolto in atmosfera, spirito, o altro che sia. E con ciò ho toccato un punto importante. Una volta, se mi piaceva un fiore, avrei voluto premermelo sul cuore, o addirittura mangiarmelo. La cosa era più difficile quando si trattava di un paesaggio intero, ma il sentimento era identico. Ero troppo sensuale, vorrei quasi dire troppo ‘possessiva’: provavo un desiderio troppo fisico per le cose che mi piacevano, le volevo avere. E’ per questo che sentivo sempre quel doloroso insaziabile desiderio, quella nostalgia per un qualcosa che mi appariva irraggiungibile, nostalgia che chiamavo allora «impulso creativo».
Credo che fossero queste forti emozioni a farmi pensare di esser nata per fare l’artista. Ora, d’un tratto, non è più così, anche se non so dire per quale processo interiore. Me ne sono appena resa conto stamattina, ripensando a una piccola passeggiata intorno all’Ijsclub qualche sera fa. Era il crepuscolo: tenere sfumature nel cielo, misteriose sagome delle case, gli alberi vivi col trasparente intreccio dei loro rami, in una parola era un incanto. Mi ricordo benissimo di come sentivo ‘una volta’: trovavo tutto talmente bello che mi faceva male al cuore. Allora la bellezza mi faceva soffrire e non sapevo che farmene di quel dolore. Allora sentivo il bisogno di scrivere o di far poesie, ma le parole non mi volevano mai venire. E mi sentivo terribilmente infelice. In fondo io mi ubriacavo di un paesaggio simile, e poi mi ritrovavo del tutto esaurita. Mi costava un’enorme quantità di energie. Ora chiamerei questo comportamento «onanismo».
Ma quella sera, solo pochi giorni fa, ho reagito diversamente. Ho accettato con gioia la bellezza di questo mondo di Dio, malgrado tutto. Ho goduto altrettanto intensamente di quel paesaggio tacito e misterioso nel crepuscolo, ma in modo per così dire ‘oggettivo’. Non volevo più ‘possederlo’. Sono tornata a casa rinvigorita, al mio lavoro. E quel paesaggio è rimasto presente sullo sfondo come un abito che rivesta la mia anima – tanto per dirla con paroloni -, ma non m’impacciava più, non era più ‘onanismo’.
E così è con S., come del resto con tutti. Anche la crisi di quel pomeriggio, quand’ero rimasta seduta a fissarlo tutta rigida e incapace di aprir bocca, era probabilmente dovuta a un atteggiamento ‘possessivo’. Mi aveva raccontato varie cose della sua vita personale: della moglie da cui è separato ma con cui è rimasto in corrispondenza, dell’amica con cui vuol sposarsi ma che si trova a Londra – «è sola e soffre» -, e poi ancora di un’altra amica che aveva avuto una volta, una bellissima cantante con cui pure è rimasto in corrispondenza. Più tardi, mentre facevamo di nuovo la lotta, io avevo sentito la suggestione del suo grosso corpo attraente.
E poi, quando mi ero seduta di nuovo di fronte a lui ed ero ammutolita, forse avevo avuto la stessa reazione di quando attraverso un paesaggio che mi tocca l’anima. Lo volevo ‘possedere’. Volevo che S. fosse anche mio. Per quanto io non lo desideri come uomo – non mi ha ancora veramente colpita, sessualmente parlando, anche se sento sempre quella tensione in sottofondo -, S. mi ha toccata nel profondo del mio essere, e questo è ancora più importante. E così lo volevo avere in un modo o nell’altro, provavo odio o gelosia per tutte le donne di cui mi aveva raccontato e forse mi chiedevo, sia pur inconsciamente, se sarebbe rimasto qualcosa per me e me lo sentivo sfuggire. Erano sentimenti piuttosto meschini, non certo elevati, ma me ne rendo conto soltanto ora.[…].

E ora capisco anche le parole di S. dopo la mia prima visita da lui. «Quel che c’è qui» (e indicava la testa) «deve finire qui» (e indicava il cuore). Allora io non capivo bene come questo processo potesse attuarsi nel suo lavoro, ma in ogni caso è successo anche se non saprei dire come. Ha pure assegnato il posto giusto alle cose che già facevano parte di me, come in un puzzle: tutti i pezzetti erano sparsi alla rinfusa e lui li ha ricomposti in un insieme ricco di significato, non so come ci sia riuscito ma questa è una cosa che riguarda lui, è per così dire il suo mestiere, e non per nulla si parla di lui come di una «personalità magica».

Ieri pomeriggio abbiamo scorso insieme le note che mi aveva dato. Quando siamo arrivati alla frase: basta che esista una sola persona degna di esser chiamata tale per poter credere negli uomini, nell’umanità, m’è venuto spontaneo di buttargli le braccia al collo. E’ un problema attuale: il grande odio per i tedeschi che ci avvelena l’animo. Espressioni come: «che anneghino tutti, canaglie, che muoiano col gas», fanno ormai parte della nostra conversazione quotidiana; a volte fanno sì che uno non se la senta più di vivere, di questi tempi. Ed ecco che improvvisamente, qualche settimana fa, è spuntato il pensiero liberatore, simile a un esitante e giovanissimo stelo in un deserto d’erbacce: se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare ii proprio odio su un popolo intero.
Questo non significa che uno sia indulgente nei confronti di determinate tendenze, si deve ben prendere posizione, sdegnarsi per certe cose in certi momenti, provare a capire, ma quell’odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia. E’ una malattia dell’anima. Odiare non è nel mio carattere. Se, in questo periodo, io arrivassi veramente a odiare, sarei ferita nella mia anima e dovrei cercare di guarire il più presto possibile. Una volta me lo spiegavo in modo un po’ superficiale: quando mi sentivo lacerata tra odio e altri sentimenti, credevo che fossero i miei istinti primitivi di ebrea minacciata dalla distruzione a essere in conflitto con le concezioni razionali socialiste che avevo acquisito – e che mi avevano insegnato a guardare a un popolo non come a un insieme, ma come a una maggioranza buona ingannata da una minoranza cattiva. Dunque, un istinto primitivo contrapposto a un’abitudine razionale.
Ma si tratta di un problema più profondo. Il socialismo permette all’odio per tutto ciò che non è socialista di entrare dalla porta di dietro. L’ho detto male, ma so che cosa voglio dire. […]
S. è come un’oasi in un deserto e ieri, così all’improvviso, ho dovuto buttargli le braccia al collo.[…]

L’età dell’anima è diversa da quella registrata all’anagrafe. Credo che l’anima abbia una determinata età fin dalla nascita, e che questa età non cambi più. E aggiunge: Credo che l’anima sia la parte più inconscia dell’uomo, soprattutto in Occidente […] l’occidentale non sa bene che farsene e se ne vergogna. […]

La miseria che c’è qui è veramente terribile, eppure, alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce – non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare – e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire, ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo intatti a questo tempo, corpo e anima, ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita..

Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani, ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica cosa che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa fare molto per modificare le circostanze attuali, ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi.

Abbiamo lasciato il campo cantando
Ed ecco Etty sulla banchina che aveva descritto nel suo modo indimenticabile solo quattordici giorni fa. Parlando allegramente, ridendo, una parola gentile per tutti quelli che incontrava, piena di umorismo scintillante anche se forse un pochino malinconico, proprio la nostra Etty come tutti voi la conoscete. «Ho con me i miei diari, la mia piccola Bibbia, la mia grammatica russa e Tolstoj e non so quante altre cose». Uno dei nostri capi è andato ancora un momento a salutarla e a dirle di avere fatto il possibile, ma tutto era stato inutile. Etty lo ha ringraziato «di aver fatto comunque tutto il possibile». E mi ha pregato di raccontarvi ogni cosa e che lei e i suoi erano partiti così bene.Ed eccomi qua, certo un po’ triste per qualcosa che si è perduto eppure no, perché un’amicizia come la sua non è mai perduta, c’è e rimane.E’ quanto ho scritto su un pezzetto di carta che le ho messo in mano all’ultimo momento. L’ho persa di vista e ho girato per un po’ nelle vicinanze. Ho cercato di trovare ancora qualcuno che potesse intervenire, è stato tutto inutile. Vedo la mamma, papà H. e Mischa salire nel vagone n. 1. Etty finisce nel vagone n. 12, dopo essere passata a salutare una sua buona conoscenza nel vagone n. 14, che all’ultimo momento viene fatta scendere. Il treno parte, un fischio acuto, e i mille «abilitati alla deportazione» si mettono in moto. Ancora una visione fuggevole di Mischa che… saluta con la mano da una fessura del vagone merci n. 1, poi un allegro ciaaao di Etty dal vagone n. 12, e sono partiti.E’ partita: ci sentiamo derubati, ma non restiamo a mani vuote. E ci rivedremo presto.E’ stato un giorno pesante per tutti. Per Kooiman, per Mech e per tutti quelli che a lungo erano stati in stretto contatto con lei. La vicinanza fisica di una persona è ben diversa dalla sua prossimità spirituale. Si sente un vuoto, all’inizio. Ma si va avanti, mentre scrivo queste cose tutto va avanti e anche lei va avanti, sempre più avanti verso l’Est dove aveva tanto desiderato di viaggiare. E credo che fosse anche un po’ contenta di fare quest’esperienza, di dover vivere pienamente il destino che ci è riservato. E la rivedremo. Su questo punto tutti noi (i suoi amici più stretti a Westerbork) siamo d’accordo. Dopo la sua partenza ho ancora parlato con la sua piccola russa e con diversi altri suoi protégés – e il loro stato d’animo diceva più che abbastanza sull’amore fedele e leale che Etty ha dato a queste persone.Perdonate questo povero resoconto – voi, che siete stati così viziati da racconti migliori e tanto ben scritti. So che diversi interrogativi rimarranno aperti e soprattutto questo: si poteva evitare? Ma posso escluderlo. Evidentemente doveva andare così. Cercherò di mandarvi alcuni libri di Etty non appena se ne presenterà l’occasione. Vorrei anche spedire la sua macchina da scrivere a Maria, Etty me l’aveva detto proprio questa settimana. Ma non so se sarà possibile.Di tanto in tanto vi manderò notizie. Accludo un paio di lettere che sono arrivate per Etty e che sono state aperte dalla censura. Rispeditele per favore al mittente.Fatevi coraggio. Ritorneremo tutti un giorno, persone come Etty sanno cavarsela nelle situazioni più difficili. Vi penso molto. (Jopie Vleeschouwer – exciplit)

Etty Hillesum – Diario 1941 – 43 A cura di J. D. Gaarlandt – Trad. Chiara Passanti – Adelphi

Titolo originale: “Het verstoorde leven Dagboek van Etty Hillesum 1941-1943”