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Conversazioni in Sicilia – Elio Vittorini

Elio Vittorini - Conversazioni in Sicilia
 “Conversazioni in Sicilia”  è forse il romanzo  più significativo di Vittorini,  è un tuffo appassionato nella Sicilia verace, fatta di volti, passioni e povertà, è una piccola Divina Commedia, un capolavoro del Novecento.
Inizialmente fu pubblicato a puntate sulla rivista “Letteratura” fra il 1938 e il 1939, e uscì per la prima volta in volume con un titolo diverso, “Nome e lagrime”, nell’evidente tentativo di aggirare la censura, e presso un piccolo editore. In seguito venne pubblicato come Conversazione in Sicilia per la Bompiani nel 1941.
Il protagonista, Silvestro, un uomo di circa trent’anni, decide improvvisamente, quasi per caso,  di tornare in Sicilia, da cui era partito quindici anni prima. Durante il viaggio incontra persone significative, come i poveri operai che testimoniano la situazione del Sud d’Italia, ma la conversazione del titolo si svolge nel paesino di montagna dove vive la madre. Qui il protagonista riflette non solo sulla condizione umana, ma mostra la sua velleità di cambiare le cose, di avere “nuovi doveri”, a cui però si contrappone una impossibilità di agire. È presente anche un duro sfogo sui mali del mondo, descritti allegoricamente attraverso le figure di un arrotino, di un venditore di stoffa, etc. Una delle parti finali esprime una dura condanna al fascismo e alla retorica che lo caratterizza, facendo riferimento in particolare ai caduti italiani nelle guerre coloniali.
Libro interessante, non di facile lettura,  andrebbe letto più volte per capirlo pienamente.

              

È una fortuna aver letto quando si era ragazzi. E doppia fortuna aver letto libri di vecchi tempi e vecchi paesi, libri di storia, libri di viaggi e le Mille e una notte in special modo. Uno può ricordare anche quello che ha letto come se lo avesse in qualche modo vissuto, e uno ha la storia degli uomini e tutto il mondo in sé, con la propria infanzia.

Estratto:

Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla. Non mi importava che la mia ragazza mi aspettasse; raggiungerla o no, o sfogliare un dizionario era per me lo stesso; e uscire e vedere gli amici, gli altri, o restare in casa era per me lo stesso. Ero quieto; ero come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa esser felici, come se non avessi nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ricevere, e come se mai in tutti i miei anni di esistenza avessi mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè, mai stato a letto con una ragazza, mai avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno, o non credessi tutto questo possibile, come se mai avessi avuto un’infanzia in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne; ma mi agitavo entro di me per astratti furori, e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l’acqua mi entrava nelle scarpe.
[…]
Poi viaggiai nel treno per le Calabrie, ricominciò a piovere, a esser notte e riconobbi il viaggio, me bambino nelle mie dieci fughe da casa e dalla Sicilia, in viaggio avanti e indietro per quel paese di fumo e di gallerie, e fischi inenarrabili di treno fermo, nella notte, in bocca a un monte, dinanzi al mare, a nomi da sogni antichi, Amantèa, Maratèa, Gioia Tauro. Così un topo, d’un tratto, non era più un topo in me, era odore, sapore, cielo e il piffero suonava un attimo melodioso, non più lamentoso. Mi addormentai, mi risvegliai e tornai ad addormentarmi, a risvegliarmi, infine fui a bordo del battello-traghetto per la Sicilia.
 
“Un siciliano non mangia mai la mattina,” egli disse d’un tratto.
Soggiunse: “Siete americano, voi?”
Parlava con disperazione eppure con soavità, come sempre era stato soave anche nel disperato pelare l’arancia e nel disperato mangiarla. Le ultime tre parole disse eccitato, in tono di stridula tensione come se gli fosse in qualche modo necessario, per la pace dell’anima, sapermi americano.
“Sì,” dissi io, vedendo questo. “Americano sono. Da quindici anni.”
[…]
Poi aspettando vidi venire su dalla valle un aquilone, e lo seguii con gli occhi passare sopra a me nell’alta luce, mi chiesi perché, dopotutto, il mondo non fosse sempre, come a sette anni, Mille e una notte. Udivo le zampogne, le campane da capre e voci per la gradinata di tetti e per la valle, e fu molte volte che me lo chiesi mentre in quell’aria guardavo l’aquilone. Questo si chiama drago volante in Sicilia, ed è in qualche modo Cina o Persia per il cielo siciliano, zaffiro, opale e geometria, e io non potevo non chiedermi, guardandolo, perché davvero la fede dei sette anni non esistesse sempre, per l’uomo.
O forse sarebbe pericolosa? Uno, a sette anni, ha miracoli in tutte le cose, e dalla nudità loro, dalla donna, ha la certezza di esse, come suppongo che lei, costola nostra, l’ha da noi. La morte c’è, ma non toglie nulla alla certezza; non reca mai offesa, allora, al mondo Mille e una notte dell’uomo. Ragazzo, uno non chiede che carta e vento, ha solo bisogno di lanciare un aquilone. Esce e lo lancia; ed è grido che si alza da lui, e il ragazzo lo porta per le sfere con filo lungo che non si vede, e così la sua fede consuma, celebra la certezza. Ma dopo che farebbe con la certezza? Dopo, uno conosce le offese recate al mondo, l’empietà, e la servitù, l’ingiustizia tra gli uomini, e la profanazione della vita terrena contro il genere umano e contro il mondo. Che farebbe allora se avesse pur sempre certezza? Che farebbe? uno si chiede. Che farei, che farei? mi chiesi.

Elio Vittorini, da Conversazioni in Sicilia