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Una questione privata – Beppe Fenoglio

Una questione privata

Una questione privata” è uno dei capolavori di Beppe Fenoglio, forse il romanzo più bello della resistenza, denso, vero, è una storia di amore ma anche di guerra; è la storia del partigiano Milton e del suo disperato amore per Fulvia, reso folle dal sospetto di una relazione della sua amata, con il suo amico fraterno Giorgio.
Milton sente di dover sapere la verità, e inizia la sua corsa… Un libro da leggere tutto d’uno fiato.
«Fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava.
Una questione privata è costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando Furioso, e nello stesso tempo c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come non era mai stata scritta. Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché».

Italo Calvino

Le aveva sempre pensate, le colline,
come il naturale teatro del suo amore,
e gli era invece toccato di farci l’ultima
cosa immaginabile, la guerra.

Estratto: 

Poi imboccò la stradina percorsa al ritorno davanti a Ivan, quattro giorni prima. Al piano, camminò con furore, rispondendo al rumore della pioggia. “In che stato sono. Sono fatto di fango, dentro e fuori. Mia madre non mi riconoscerebbe. Fulvia, non dovevi farmi questo. Specie pensando a ciò che mi stava davanti. Ma tu non potevi sapere che cosa stava davanti a me, ed anche a lui e a tutti i ragazzi. Tu non devi saper niente, solo che io ti amo. Io invece debbo sapere, solo se io ho la tua anima. Ti sto pensando, anche ora, anche in queste condizioni sto pensando a te. Lo sai che se cesso di pensarti, tu muori, istantaneamente? Ma non temere, io non cesserò mai di pensarti”. 
Saliva al penultimo ciglione, a occhi serrati e piegato in due. Quando si fosse saputo al culmine, sarebbe scattato dritto e avrebbe sgranato gli occhi per riempirseli subito della casa di lei.”

[…]
Erano una cinquantina, sparsi per i campi, in tutte le direzioni, uno solo sulla strada, non tutti con l’arma pronta, tutti in mimetico ammollato, la pioggia si polverizzava sui loro elmetti splendenti. Il meno lontano era quello sulla strada, a trenta metri da lui, teneva il moschetto fra spalla e braccio, come se lo ninnasse.
Nessuno si era ancora accorto di lui, parevano tutti, lui compreso, in trance.
Con una zecca del pollice sbottonò la fondina, ma non estrasse la pistola. Nell’istante in cui il soldato più vicino dirigeva su di lui gli occhi frastornati dall’acqua, Milton ruotò seccamente all’indietro. Non gli arrivò l’urlo dell’allarme, solo un rantolo di stupore.
Camminava verso il culmine con passi lunghi e indifferenti, mentre il cuore gli batteva in tanti posti e tutti assurdi e sentiva la schiena allargarglisi, fino a debordare dalla strada. “Sono morto. Mi prendesse alla nuca. Ma quando arriva?”
“Arrenditi!”
Gli si ghiacciò il ventre e gli mancò netto il ginocchio sinistro, ma si raccolse e scattò verso il ciglio. Già sparavano, di moschetto e di mitra, a Milton pareva non di correre sulla terra, ma di pedalare sul vento delle pallottole. “Nella testa, nella testa!” urlava dentro di sé e in tuffo sorvolò il ciglione e atterrò sul pendio, mentre un’infinità di pallottole spazzavano il culmine e tranciavano la sua aria. Fece una lunghissima scivolata, fendendo il fango con la testa protesa, gli occhi sbarrati e ciechi, sfiorando massi emergenti e cespi di spine. Ma non aveva sensazione di ferite e di sangue spicciante, oppure il fango richiudeva, plastificava tutto. Si rialzò e corse, ma troppo lento e pesante, senza il coraggio di sbirciare all’indietro, per non vederli ormai sul ciglione, allineati come al banco di un tirasegno. Correva goffamente tra un argine e il torrente, e a un certo punto pensò di fermarsi, visto che tanto non gli riusciva di prendere velocità. Sempre aspettando la scarica. “Non alle gambe, non nella spina!”
Continuò a correre verso il tratto più alberato del torrente. Quando li intravvide sull’arginello, probabilmente un’altra pattuglia, seminascosti dietro le gaggie sgrondanti, a una cinquantina di passi da lui. Non l’avevano ancora individuato, lui era come uno spettro fangoso, ma ecco che ora urlavano e spianavano le armi.
“Arrenditi!”
Aveva già frenato e rinculato. Puntò dritto al ponte e dopo tre passi si avvitò su se stesso e rotolò via. Sparavano sa due lati, dal ciglione e dall’arginello, urlando a lui e a se stessi, eccitandosi, indirizzandosi, rimproverandosi, incoraggiandosi. Milton era di nuovo in piedi, rotolando aveva urtato contro una gobba del terreno. Dietro, davanti e intorno a lui la terra si squarciava e ribolliva, lanci di fango svincolati dalle pallottole gli si agganciavano alle caviglie, di fronte a lui gli arbusti della riva saltavano con crepiti secchi.
Ripuntò al ponticello minato. Era una morte identica a quell’altra, ma agli ultimi passi il suo corpo pianse e si rifiutò di saltare in aria a brandelli. Senza l’intervento del cervello, frenò seccamente , saltò nel torrente volando oltre i cespugli tranciati dalla fucileria.
Cadde in piedi e l’acqua gli grippò le ginocchia, mentre ramaglia potata dal fuoco gli crollava sulle spalle. Non indugiò più di un secondo, ma seppe che era bastato, se solo osava girar gli occhi avrebbe certo visto i primi soldati già sulla sponda, che gli miravano il capo con sette, otto, dieci armi. La mano gli volò alla fondina, ma la trovò vuota, sotto le dita non schizzò via che un po’ di fango. Perduta, certo gli era sfuggita in quell’enorme scivolata a capofitto giù dal ciglione. Per la disperazione voltò intera la testa e guardò tra i cespugli. Un solo soldato gli era vicino, a un venti passi, col moschetto che gli ballava tra mano e gli occhi fissi all’arcata del ponte. Con uno sciacquio assordante si tuffò avanti di ventre e con un solo guizzo si aggrappò all’altra sponda. Riscoppiò dietro l’urlìo e la sparatoria. Scavalcò la riva sul ventre e si buttò per lo sconfinato, nudo prato. Ma le ginocchia gli cedettero nell’intollerabile sforzo di acquistar subito velocità. Stramazzò. Urlarono a squarciagola. Una voce terribile malediceva i soldati. Due pallottole si conficcarono in terra vicino a lui, morbide, amichevoli. Si rialzò e corse, senza forzare, rassegnatamente, senza nemmeno zigzagare. Le pallottole arrivavano innumerevoli, a branchi, a sfilze. Arrivavano anche in diagonale, alcuni si erano precipitati a sinistra per coglierlo d’infilata, e gli sparavano anche d’anticipo, come a un uccello. Queste diagonali lo atterrivano infinitamente di più, le dirette avevano tutte la probabilità di farlo secco. “Nella testa, nella testaaaa!” Non aveva più la pistola per spararsi, non vedeva un tronco contro cui fracassarsi la testa, correndo alla cieca si alzò le due mani al collo per strozzarsi.
Correva, sempre più veloce, più sciolto, col cuore che bussava, ma dall’esterno verso l’interno, come se smaniasse di riconquistare la sua sede. Correva come non aveva mai corso, come nessuno aveva mai corso, e le creste delle colline dirimpetto, annerite e sbavate dal diluvio, balenavano come vivo acciaio ai suoi occhi sgranati e semiciechi. Correva, e gli spari e gli urli scemavano, annegavano in un immenso, invalicabile stagno fra lui e i nemici.
Correva ancora, ma senza contatto con la terra, corpo, movimenti, respiro, fatica vanificati. Poi, mentre ancora correva, in posti nuovi o irriconoscibili dalla sua vista svanita, la mente riprese a funzionargli. Ma i pensieri venivano dal di fuori, lo colpivano in fronte come ciottoli scagliati da una fionda. “Sono vivo. Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti mi ammazzi!”
Non finiva di correre. La terra saliva sensibilmente ma a lui sembrava di correre in piano, un piano asciutto, elastico, invitante. Poi d’improvviso gli si parò dinanzi una borgata. Mugolando Milton la scartò, l’aggirò sempre correndo a più non posso. Ma come l’ebbe sorpassata, improvvisamente tagliò a sinistra e l’aggirò di ritorno. Aveva bisogno di veder gente e d’essere visto, per convincersi che era vivo, non uno spirito che aliava nell’aria in attesa di incappare nelle reti degli angeli. Sempre a quel ritmo di corsa riguadagnò l’imbocco del borgo e l’attraversò nel bel mezzo. C’erano ragazzini che uscivano dalla scuola e al rimbombo di quel galoppo sul selciato si fermarono sugli scalini, fissi alla svolta. Irruppe Milton, come un cavallo, gli occhi tutti bianchi, la bocca spalancata e schiumosa, a ogni batter di piede saettava fango dai fianchi. Scoppiò un grido adulto, forse della maestra alla finestra, ma lui era già lontano, presso l’ultima casa, al margine della campagna che ondava.
Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò.
Beppe Fenoglio, da “Una questione privata”, (excipit)