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La spiaggia – Cesare Pavese

Cesare Pavese - La spiaggia

La spiaggia è un romanzo breve, edito per la prima volta nel 1941, allora non ebbe successo, passò sotto silenzio, venne ristampato da Einaudi editore nel 1956, dopo il drammatico suicidio di Pavese.
L’intera storia è raccontata dal protagonista, un professore poco più che trentenne, il quale attraverso il suo punto di vista accompagna il lettore al centro della narrazione. Doro e il professore sono legati da un’amicizia ancestrale, ma, come spesso accade, dopo aver condiviso sogni, speranze e vicende quotidiane di ogni tipo, si perdono di vista. In seguito Doro sposa Clelia, una donna intelligente, da cui tutti gli amici della coppia sono affascinati, e lascia Torino per Genova. Dopo un lungo periodo, un giorno d’estate, Doro ritorna. A quanto dice, gli è semplicemente venuta voglia di rivedere il suo paese, tuttavia l’amico di un tempo non gli crede: lo accompagna per i luoghi della loro giovinezza e intanto prova a scavare sotto quella scorza taciturna ed evasiva, alla ricerca di un dramma intimo.Dopo diverse sollecitazioni il professore trascorrere una vacanza con la coppia, nelle vicinanze di Genova. La storia si svolge tutta su questo filo, e i due personaggi, insieme alla giovane Clelia, vivranno una parte d’Estate insieme, a contatto con altri amici tra cui Guido, giovane uomo che si vergogna della propria amante, Berti, ex allievo del professore, e le due amiche di Clelia: Ginetta e Mara.
Il romanzo procede per immagini e piccole vicende che fanno da sfondo alle reali intenzioni di Pavese: mettere in luce, attraverso i racconti, i dialoghi, le osservazioni, il detto e non detto dei protagonisti, gli strani meccanismi, le trappole in cui cade il rapporto di coppia. Il tempo, i gesti ripetuti, il confronto con gli altri accompagnano i giorni di Clelia e di Doro.
La spiaggia diventa luogo di riflessione, in cui restare soli a pensare e ricordare il tempo passato, in cui la nostalgia avanza e si prendono sul serio le difficoltà della vita, l’amore, la solitudine e anche la consapevolezza di essere davvero diventati “grandi”.
Un romanzo intenso e melanconico sui sentimenti, misteriosi e ambigui, che lasciano gli individui soli dinanzi al loro ineluttabile destino. Una scrittura magistrale, Pavese da un lato ha la capacità di rendere certe ‘atmosfere’, dall’altro la sua poesia, sempre in bilico tra amarezza e incanto, ha l’abilità di penetrare l’animo umano.
Un romanzo bello, delicato, da leggere tutto d’uno fiato. Consigliato.

Ciò di cui sono certo è la gioia, l’improvvisa beatitudine, che provai tendendo la mano a toccare la spalla di Doro. Ne sentii il sussulto nel respiro, e improvvisamente gli volli bene perché dopo tanto tempo eravamo tornati insieme.


Estratto

Mattino e pomeriggio ci passarono in tranquillo vagabondaggio, per le salite e le discese del poggio. Pareva che Doro facesse apposta a infilare sentierucoli che non portavano in nessun luogo ma morivano nell’afa su un greto, contro una siepe, sotto un cancello chiuso. Risalimmo anche un pezzo dello stradone che traversava la valle, verso sera quando il sole già basso sulla pianura la riempiva tutta di pulviscolo e le gaggie cominciavano a tremolare alla brezza. Mi sentivo rivivere, e anche Doro divenne più loquace. (…)
Uscimmo dall’albergo a fare quattro passi e la luna ci mostrò la strada… La luna bagnava ogni cosa, fin le grandi colline, in un vapore trasparente che velava, cancellava ogni ricordo del giorno. 
[…]
Non era per me una novità che più di tre persone fanno folla, e nulla si può dire allora che valga la pena. Quasi preferivo le notti che si prendeva l’automobile e si correva la costa in cerca di fresco. Succedeva che su qualche belvedere, mentre tutti ballavano, io potevo a volte scambiare quattro chiacchiere con Doro o con Clelia, o dire convinte sciocchezze a qualcuna delle signore. Bastava allora un bicchierino e la brezza del mare, per rimettermi in sesto.
Di giorno sulla spiaggia era un’altra cosa. Si parla con strana cautela quando si è seminudi: le parole non suonano più nello stesso modo, a volte si tace e sembra che il silenzio schiuda da sé parole ambigue. Clelia aveva un modo estatico di godersi il sole stesa sulla roccia, di fondersi con la roccia e appiattirsi al cielo, rispondendo appena con un susurro, con un sospiro, con un sussulto del ginocchio o del gomito, alle brevi parole di chi le fosse accanto. Mi accorsi ben presto che, stesa così, Clelia non ascoltava veramente nulla. Doro, che lo sapeva, non le parlava mai. Stava seduto sul suo asciugamano con le ginocchia tra le dita, fosco, inquieto; non si stendeva come Clelia; se qualche volta ci si provava, dopo pochi minuti eccolo a torcersi, a voltarsi sul ventre, o a risedersi come prima.
[…]
L’ora più bella era il mezzodì passato o il tramonto, quando il tepore o il colore dell’acqua inducevano i più restii a bagnarsi o a passeggiare per la spiaggia, e si restava quasi soli, tutt’al più con quel Guido che discorreva amabilmente. Doro che aveva la malinconia di distrarsi coi pennelli, piazzava a volte un cavalletto sullo scoglio e dipingeva barche, ombrelloni, chiazze di colore, contento di guardarci dall’alto e ascoltare le nostre ciance. A volte qualcuno del gruppo arrivava in barca, e accostava con cautela e ci chiamava. Nei silenzi che seguivano, ascoltavamo lo sciaguattare del fiotto tra i sassi.
L’amico Guido diceva sempre che quello sciaguattio era il vizio di Clelia, il suo segreto, la sue infedeltà a tutti noi. “Non mi pare,” disse Clelia, “lo ascolto nuda e stesa al sole, e chi vuole ci vede.” “Chi lo se,” disse Guido. “Chi sa i discorsi che una donna come lei si fa fare dalla maretta. Immagino quello che vi dite prima, quando siete abbracciati.”
Le marine di Doro – ne fece due in quei giorni – erano dipinte a colori pallidi e imprecisi, quasi che la foga stessa del sole e dell’aria, assordante e accecante, gli smorzasse le pennellate. Qualcuno s’arrampicava dietro Doro, e seguiva la mano e gli dava consigli. Doro non rispondeva. A me disse una volta che uno si diverte come può. Provai a dirgli che non dipingesse dal vero, perché tanto il mare era sempre più bello dei suoi quadretti: bastava guardarlo. Al suo posto, con la capacità che aveva lui, io avrei fatto dei ritratti: è una soddisfazione indovinare la gente. Doro ridendo mi rispose che finita la stagione chiudeva la cassette e non ci pensava più.
Una sera che s’era scherzato su questo e camminavamo con Doro verso il caffè degli aperitivi, l’amico Guido osservò, col suo tono sornione, che nessuno avrebbe detto che sotto la scorza dura e dinamica dell’uomo di mondo sonnecchiava in Doro l’anima dell’artista. “Sonnecchia sì,” rispose Doro, spensierato e contento. “Che cosa non sonnecchia sotto la scorza di noialtri. Bisognerebbe avere il coraggio di svegliarsi e trovare se stessi. O almeno parlarne. Si parla troppo poco a questo mondo.”(…)
“Bisogna capire la vita,” disse ancora, strizzando l’occhio con un’espressione di disagio. “Capirla quando si è giovani.”
[…] 
Chiacchierammo a lungo quella notte, e poi andammo a vedere il mare sotto le stelle. La notte era così chiara che s’intravedeva il biancore del frangente sotto la ringhiera del Passeggio. Io dissi che insomma a tutta quell’acqua non ci credevo e che il mare aveva l’effetto di farmi vivere sotto una campana di vetro. Descrissi il mio ulivo come una vegetazione lunare, anche quando non c’era la luna. Clelia, volgendosi tra me e Doro, esclamò: “Com’è bello! Andiamo a vederlo”.

Cesare Pavese, La spiaggia