La monotonia dell’esistenza degli adulti mi aveva sempre afflitta; quando mi resi conto che tra non molto l’avrei condivisa anch’io, fui presa dall’angoscia. Un pomeriggio – stavo aiutando la mamma a rigovernare i piatti, lei lavava e io asciugavo – dalla finestra vedevo il muro della caserma dei pompieri, e altre cucine, con donne che strofinavano casseruole o pulivano la verdura. Ogni giorno, la colazione, il pranzo; ogni giorno fare i piatti; ore che ritornano indefinitamente e che non conducono a nulla: sarebbe stata questa la mia vita? nella mia mente si formò un’immagine, così nitida, così desolante,che me la ricordo ancor oggi: una fila di quadratini grigi che si estendevano a perdita di vista, rimpicciolendo secondo le leggi della prospettiva, ma tutti identici e piatti; erano i giorni, le settimane,gli anni. Da quando ero nata, ogni sera mi ero addormentata un po’più ricca della sera prima; mi elevavo a grado a grado; ma se in cima non avrei trovato nient’altro che un triste pianoro, senz’alcuna meta verso cui puntare, a che pro?
No, mi dissi ordinando sul ripiano una pila di piatti, la mia vita condurrà in qualche posto. Io preferivo infinitamente la prospettiva di un mestiere a quella del matrimonio; autorizzava delle speranze. C’era stata gente che aveva fatto cose: ne avrei fatte anch’io. Non sapevo bene quali. L’astronomia, l’archeologia, la paleontologia, mi avevano di volta in volta attirato, e continuavo ad accarezzare vagamente il progetto di scrivere. Ma erano progetti che mancavano di consistenza, e non vi credevo abbastanza per affrontare con fiducia l’avvenire.
Avevo perduto la sicurezza dell’infanzia; in cambio non avevo guadagnato niente. L’autorità dei miei genitori non s’era attenuata, e a mano a mano che il mio spirito critico si risvegliava la sopportavo con sempre maggiore impazienza. Non vedevo l’utilità delle visite, dei pranzi di famiglia, di tutte quelle corvées che i miei genitori ritenevano obbligatorie. Le risposte: «Bisogna», «Non sta bene», non mi soddisfacevano più affatto. La sollecitudine di mia madre mi pesava. Ella aveva «le sue idee», che non si curava di giustificare, e così le sue decisioni mi apparivano spesso arbitrarie. Avemmo una discussione violenta a proposito di un messale che donai a mia sorella per la sua comunione solenne; io lo volevo rilegato in cuoio fulvo, come quello che avevano la maggior parte delle mie compagne; la mamma riteneva che una copertina di tela azzurra sarebbe stata bella abbastanza; io protestai che i soldi del mio salvadanaio erano miei; ella rispose che non si dovevano spendere venti franchi per un oggetto che ne può costare solo quattordici. Mentre stavamo dal fornaio per comprare il pane, e poi salendo le scale per tornare a casa, le tenni testa. Infine dovetti cedere, con la rabbia in cuore, ripromettendomi di non perdonarle mai più ciò che consideravo un abuso di potere. Se mi avesse contrariata spesso credo che mi avrebbe precipitata nella rivolta. Ma nelle cose importanti – gli studi, la scelta delle mie amiche – ella interveniva poco; rispettava il mio lavoro, e anche i miei divertimenti, chiedendomi soltanto piccoli servizi: macinare il caffè, portare di sotto la pattumiera. Ero abituata alla docilità, e credevo che, in complesso, Dio l’esigesse da me; il conflitto che mi opponeva a mia madre non scoppiò; ma sordamente ne avevo coscienza; il suo ambiente l’aveva convinta che il ruolo più bello per una donna era la maternità, e lei poteva svolgerlo solo se io svolgevo il mio, ma io mi rifiutavo, con la stessa ostinazione di quando avevo cinque anni, a prestarmi alle commedie degli adulti. All’Istituto Désir, alla vigilia della nostra comunione solenne, ci esortavano a gettarci ai piedi delle nostre madri e chieder loro perdono delle nostre colpe; non soltanto io non l’avevo fatto, ma quando venne la volta di mia sorella, la dissuasi dal farlo. Mia madre ne fu offesa. Indovinava in me delle reticenze che la indisponevano, e mi rimproverava spesso. Mi risentivo del fatto che mi mantenesse in uno stato di dipendenza e affermasse dei diritti su di me. Inoltre, ero gelosa del posto ch’ella occupava nel cuore di mio padre, poiché la mia passione per lui era andata aumentando.
Quando egli mi approvava, ero sicura di me. Per anni, non mi aveva dispensato che elogi. Quando entrai nell’età ingrata, lo delusi; l’eleganza, la bellezza, erano queste le cose che apprezzava nelle donne. Non soltanto non mi nascose la sua delusione, ma cominciò a dimostrare più interesse che in passato per mia sorella, che restava una graziosa bambina.
Così, i rapporti con la mia famiglia erano divenuti assai meno facili di un tempo. Mia sorella non mi idolatrava più senza riserve, mio padre mi trovava brutta, e me ne faceva una colpa, mia madre diffidava degli oscuri cambiamenti che indovinava in me. Se avessero letto dentro di me, i miei genitori mi avrebbero condannata; invece di proteggermi come un tempo, il loro sguardo mi metteva in pericolo. Non abitavo più in un luogo privilegiato, e la mia perfezione s’era sbrecciata, ero insicura di me stessa e vulnerabile. Era inevitabile che i miei rapporti con gli altri ne venissero modificati.